"L'ALBERGO DEI POVERI" DI GOR'KIJ TRIONFA AL TEATRO ARGENTINA CON POPOLIZIO
di Rosalba Panzieri
Conosciuto anche col titolo “I bassifondi”, o “Sul fondo”, o ancora “Il dormitorio”, questo grande dramma di Maksim Gor’kij, rappresentato per la prima volta a Mosca nel 1902, fu ribattezzato “L’albergo dei poveri” da Giorgio Strehler nel 1947, in occasione della memorabile regia che inaugurò il Piccolo Teatro di Milano nel maggio del 1947. Maksim Gor’kij autore che conosceva bene la povertà: rimasto orfano in tenera età dovette adattarsi ai più disparati lavori per sopravvivere. Fu ciabattino, disegnatore, aiuto cuoco su un battello, venditore di icone, casellante, panettiere. Da queste vicende personali tanto sofferte nacque la sua produzione letteraria incentrata sui poveri. Nel 1889, a Nižnij Novgorod, fu arrestato per rapporti coi sorvegliati politici. In un giornale di Tiflis apparve il suo primo racconto, Makar Čudra (1892). Nel 1898 raccolse i propri racconti in due volumi riscuotendo un successo che gli valse tanta notorietà da essere, accanto a Tolstoj, il più famoso scrittore russo. Il suo nome si lega a quello di altri tre nomi, destinati a cambiare la storia del teatro mondiale: Stanislavskij e Dancenko e Cechov. I primi due misero in scena l’opera nel teatro d’arte da loro diretto, nonostante il testo fosse stato proibito nei teatri imperiali di Mosca e San Pietroburgo. Era il 1902. Nello stesso anno Gor’kij, fu eletto membro dell’Accademia delle scienze, ma il governo annullò il riconoscimento; fu Čechov insieme a Korolenko, a protestare contro un tale sopruso, abbandonando l’Accademia di cui erano membri. Prese parte ai moti rivoluzionari e per questo arrestato nel 1905, rinchiuso nella fortezza di Pietro e Paolo a Pietroburgo. Nel 1906, emigrò in Italia, stabilendosi prima a Capri, dove restò per quasi vent’anni e poi a Sorrento, per tornare in patria solo nel 1931 e per dedicarsi alla formazione dei nuovi scrittori. Parliamo dunque di uno scrittore profondamente impastato con le difficoltà sociali, che conosce tanto la povertà quanto la gloria, che ha visto le ombre di chi cresce in miseria, emarginato, riparando in luoghi “senza sole”, altro titolo che venne dato all’opera, prima di guadagnare l’ultimo: l’albergo dei poveri. È quest’ultimo titolo che Massimo Popolizio ha deciso di riproporre al pubblico, in virtù del suo valore emblematico e poetico, oltre che storico. “L’albergo dei poveri” è un grande dramma corale, che si potrebbe definire shakespeariano nel suo sapiente dosaggio di pathos, denuncia sociale, amara comicità, riflessione filosofica e morale sul destino umano.
Il numero elevato degli attori in scena (la multiforme popolazione di questa sorta di rifugio dormitorio per gli ultimi della società) impone alla regia la ricerca di un ritmo adeguato al continuo mutare delle situazioni e dei punti di vista, in un crescendo di tensione reso ancora più evidente dall’angustia dello spazio evocato. Questo rifugio di derelitti e alcolizzati dove i personaggi trascorrono i loro giorni tentando di non soccombere alla disperazione e all’inerzia della sconfitta.
Si tratta di una sfida che, dopo Stanislavskin, è stata raccolta da grandi maestri della regia teatrale, come Strehler, e anche cinematografica, tra gli altri, Resnais e Kurosawa. Se le grandi opere viaggiano nel tempo per essere rilette a ogni generazione da angolature diverse, lo stile di regia di Popolizio, la sua maniera di dirigere gli attori e il meccanismo teatrale nel suo complesso, appare particolarmente adeguato a scrivere un nuovo capitolo di questa storia di interpretazioni. Il nostro non è il mondo del 1902, e nemmeno quello del 1947: è mutato anche il concetto stesso di «povertà», ma l’energia drammatica, la forza visionaria, la disperata lucidità dei personaggi di Gor’kij è ancora intatta, grazie anche alla nuova scrittura drammatica di Emanuele Trevi, che asciuga moltissimo il testo, mettendolo al servizio della messa in scena di Popolizio, che qui incarna, proprio attraverso il duplice ruolo di regista e attore, il multipiano espresso dal testo.
La scena si anima di un costante passaggio dal sotto al sopra, ma senza altezze, appunto, senza che i personaggi riescano mai a guadagnare la luce. È un mondo di miseria quello che guardiamo e che ci guarda, da spettatori, tutti i personaggi sono pervasi da una speranza pulsionale, delirante e grottesca, che non slancia mai il collo oltre il basso orizzonte concesso a quelle vite dalle architetture stesse che le contengono. Le recitazioni sono eccellenti, Popolizio si conferma un grande attore e un regista capace di restituire le suggestioni del testo. Ed è proprio il testo a colpirci in viso con la sua attualità. Tra i momenti di dirimente contemporaneità desidero ricordare il passaggio sulla menzogna e sulla sua necessità per sopravvivere e la crudezza conclusiva, in cui l’impiccagione è l’unico modo che si ha per avvicinare l’altezza, mentre il sacrificio della vita per gli altri non è che uno spiacevole inconveniente che guasta la serata. Non accade ogni giorno, in ogni parte del mondo?
Fonte: “La Discussione”.
01 aprile 2024 – Rosalba Panzieri – Qui Radio Londra Tv